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Eric Satie e François Liszt secondo Jankélévitch


Se possiamo pensare a due musicisti estremamente diversi tra di loro, se non diametralmente opposti, questi sicuramente sono Erik Satie e Franz Liszt, ancor più di quanto possano essere quegli antipodi che di tanto in tanto emergono nella storia della musica e nelle diatribe musicologiche, come Bach ed Haendel, Wagner e Brahms, Schoenberg e Stravinskij. Quanta distanza separa l’umile alunno della Schola cantorum, abitante del quartiere operaio di Arcueil, dall’estroverso compositore cosmopolita amico di Chopin e Wagner, lo squattrinato pianista dello Chat Noir e dei cabaret di Montmartre dal brillante e stupefacente ‘idolo delle folle’ e fondatore del recital pianistico ottocentesco! Per non parlare dello scarto temporale e geografico, tra il musicista più vicino alle avanguardie dadaiste e surrealiste novecentesche e l’aedo ungherese che ha saputo coniugare le tradizioni etniche con la più raffinata fioritura del romanticismo.

Eppure i due compositori sono due punti di riferimento fondamentali del pensiero musicologico di Vladimir Jankélévitch. Al primo il filosofo ebreo-russo naturalizzato francese (nato a Bourges nel 1903 e morto a Parigi nel 1985) dedica uno scritto del 1960 intitolato Satie et le matin, mentre su Liszt – volutamente chiamato François e non Franz per sminuire le sue ascendenze austro-tedesche, verso cui Jankélévitch ha sempre provato una particolare idiosincrasia – scrive nel 1979 Liszt et la Rhapsodie. Essai sur la virtuosité. Il pudore e l’ascetica sobrietà del primo si contrappone all’ostentazione virtuosistica e allo spirito rapsodico del secondo: «Se tutti i musicisti scrivessero musica come Satie - riconosce lo stesso Jankélévitch – i virtuosi resterebbero disoccupati», perché quello che preme all’autore del Socrate è costringere l’ascoltatore a una pratica uditiva quasi mistica, che proceda per sottrazione, quando è tipico del virtuoso invece fiorire la musica di ornamenti e artifici, che aggiungono, talora sovraccaricano, il materiale di base, anche qualora questo fosse poverissimo. Satie, come gli antichi stoici e gli efebi spartani, fa permanere la musica nella schietta nudità, senza quegli orpelli e paramenti, che per Seneca sono un ostacolo alla virtù e per Socrate un impedimento all’emergere della verità. Ecco perché il suo stile può spesso apparire noioso, se non fastidioso (hargneux). Il tipico arcaismo e l’uso ripetuto di procedimenti modali lo facevano apparire quasi un medioevale trapiantato nell’età moderna, come ebbe a esprimersi Debussy; mentre egli stesso, provocatoriamente, interpretava il proprio anacronismo all’inverso: «Sono capitato troppo giovane in un’epoca troppo vecchia». La sua poetica della rinuncia, infatti, voleva condurre a un rinnovamento che Jankélévitch interpreta come una specie di disintossicazione e di purificazione rispetto alla sovrabbondanza stilistica e linguistica del tardo romanticismo e dell’espressionismo. Da qui il particolare istantaneismo di Satie, il suo rifiuto ad adottare la tecnica dello sviluppo tematico, dell’elaborazione logica e del dinamismo temporale, nonché quello spirito pudico e ironico che è, per lui come per Socrate, la cifra di un atteggiamento anti-retorico e anti-sofistico.

Opposto il caso di François Liszt, il cui virtuosimo è la massima efflorescenza del vitalismo in musica, dell’esibizionismo della bravura, che si esplica nello sfruttamento delle possibilità tecniche dello strumento e delle capacità digitali dello strumentista. Il rapporto tra potenzialità soggettive e difficoltà esecutive è corrispondente, per Jankélévitch, alla relazione tra creatività e natura, che nella cosmologia platonica coincide con l’azione del demiurgo e nella civilizzazione moderna con la produzione industriale; si basa infatti su un tipo di intelligenza che sfrutta fino all’astuzia le resistenze della materia e affina al massimo grado l’agilità, l’articolazione meccanica e l’indipendenza delle dita. Eludendo le sottigliezze tecniche, la musica di Satie preferisce quindi la litote e l’ironia, mentre quella di Liszt è estremamente affermativa, non interroga maieuticamente l’ascoltatore ma lo travolge di risposte, tanto da lasciarlo senza respiro: non è insomma un punto di domanda ma un punto esclamativo. Alla brachilogia linguistica Liszt contrappone la magniloquenza, al candore immacolato una multicolore tavolozza sonora, alla semplicità innocente la complessità consapevole delle proprie capacità, all’atarassia silenziosa e al raccoglimento ascetico il trionfo dell’ostentazione, nell’intento di celebrare lo splendore della visibilità e la magnificenza dell’essere: «[…] quelle fanfare del trionfo che risuonano dappertutto nella sua opera, che sia per orchestra come per organo o per piano, affermano la positività della presenza sensibile e degli splendori terrestri».

Eppure, proprio sull’acme estrema di questa sorta di «apoteosi dell’apparenza» e di glorificazione della luminosità, l’opposizione tra i due musicisti sembra quasi sciogliersi trovando un inaspettato punto di collusione. Da un lato lo spirito pudico di Satie è un arretramento dell’espressione e si pone al di qua della retorica romantica e del sentimentalismo; dall’altro Liszt invece va oltre, li supera accentuandone i mezzi e le conseguenze. Ma, secondo Jankélévitch sia Liszt che Satie sono degli autentici charmeur: in modi differenti essi mirano ugualmente ad affascinare e sedurre l’ascoltatore. Entrambi utilizzano l’inganno e la finzione, vuoi per mascherare le passioni con l’ingenuità inespressiva (Descriptions automatiques, Croquis d’un gros bonhomme en bois) vuoi per coprire con un profluvio di note e notine qualsiasi tentazione al nichilismo e alla disperazione; ma l’obiettivo è comune: catturare, in-cantare, provocare quello stupore che secondo Platone e ancor più Aristotele sta alla base del pensiero filosofico (taumathein). Sia la temporalità anodina e statica delle Gimnopédies e delle Gnossiennes, sia il divenire fluido e potenzialmente aperto all’infinito degli Studi trascendentali, rappresentano in modo diverso quello che Jankélévitch chiama il «mistero in piena luce», ossia l’intuizione dell’ambivalenza dell’esistenza attraverso l’affermazione della sua pienezza. Liszt e Satie, quindi, sono come due facce della stessa medaglia di una filosofia musicale che fa del paradosso «amfibolico», ossia duplice, ambiguo, bivalente, la cifra del modo di essere tanto dell’uomo nel mondo quanto dell’arte musicale stessa. Come dice il filosofo ne La musica e l’ineffabile: «Anche nelle sue violenze e nelle sue cadenze senza tempo, la musica è una stilizzazione del tempo…Il tempo stilizzato è vissuto nel presente come un eterno Ora, e questa eternità è, per così dire, un’eternità provvisoria…».


[1] La musique et l’Ineffable, Paris, Seuil, 1983, p. 151

 

l'autore dell'articolo Carlo Migliaccio e’ laureato in Filosofia presso l'Università degli Studi di Milano ed ha seguito parallelamente studi musicali frequentando il corso di Composizione sperimentale, diplomandosi in Pianoforte principale presso il Conservatorio di Milano. E’ collaboratore di diverse riviste, filosofiche, letterarie e musicologiche, italiane e straniere. Dal 1993 collabora al Seminario di Filosofia della musica, presso l’Università degli Studi di Milano. Insegna filosofia nelle scuole superiori. Ha conseguito il dottorato in filosofia presso l’Università di Tolosa.

Principali pubblicazioni: I balletti di Igor Stravinskij, Mursia, Milano 1992; Invito al pensiero di Henri Bergson, Mursia, Milano 1994; Musica e utopia. La filosofia della musica di Ernst Bloch, Guerini, Milano 1995; Invito all'ascolto di Claude Debussy, Mursia, Milano 1997; L'Odissea musicale nella filosofia di Vladimir Jankélévitch, CUEM, Milano 2000.



immagine di copertina

particolare Maison Satie



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