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Oltre il peggio: Cioran e il silenzio


La presunzione di ordinare il caotico e di spiegare le lacrime, Emil Cioran non l’aveva maitollerata, perché non c’è «nulla di più irritante di quelle opere in cui si coordinano le idee disseminate diuno spirito che a tutto ha mirato, tranne che al sistema»(1). In questo passaggio il pensatore rumeno fa unesplicito riferimento a Nietzsche, ma è chiaro che si stesse preoccupando anche di se stesso e di quelloche gli «eruditi», così avidi di conclusioni e di costanti, avrebbero trovato nei suoi testi, i quali non fannoaltro che registrare le «variazioni di umore» del loro autore (2). È un prender nota dei propri malesseri edelle proprie amarezze, con il pretesto che il nulla che ritroviamo in noi stessi sia un riverbero del vuotoche ci circonda e su cui il mondo si regge. Non si tratta di un semplice capriccio biografico, ma di unaprofonda convinzione metafisica, che manda in cortocircuito qualsiasi tipologia di discorso filosofico:perché, infatti, scrivere dell’essere, a cospetto dell’inconfutabile evidenza del nulla? E di questo nulla chesi estende all’infinito, cosa mai potrebbero dire le parole, se non attestare il fatto che esse non hannoalcun rapporto con la verità? Bisognerebbe tacere gridare soffrire, di certo non scrivere. O forse scriverealla luce di una sofferenza sublime, come un mistico o un poeta. Tuttavia, l’ideale sarebbe trascenderel’orizzonte verbale nella speranza di un universo sonoro, come soltanto può accadere nelle visionimusicali. Non casualmente la musica svolge un ruolo fondamentale nelle riflessioni di Cioran, al puntoche egli sia il primo a confessare che, tra i molti fallimenti all’origine delle sue pagine, «l’obbrobrio dinon essere musicista» sia probabilmente il più importante (3). Bisogna indagare il motivo di questaaffermazione, per vedere che rapporti intercorrono tra musica e metafisica, tra la «nostalgia dell’assoluto»e il «rimpianto musicale» di non poter corrispondere al tempo. Già nel Précis de décomposition, Cioran si congedava dall’«impersonale inquietudine» della filosofia e sentenziava: «L’esercizio filosofico non è fecondo, è solo onorabile. Si è sempre impunemente filosofi: un mestiere senza destino che riempie di pensieri voluminosi le ore neutre e vacanti, le ore refrattarie e all’Antico Testamento, e a Bach, e a Shakespeare. E questi pensieri si sono mai materializzati in una sola pagina equivalente a un’esclamazione di Giobbe, a un terrore di Macbeth o all’altitudine di una cantata? Non si discute l’universo, lo si esprime. E la filosofia non lo esprime» (4). Di fronte all’impossibilità di esprimere filosoficamente il mondo, Cioran si prende pascalianamente gioco delle pretese filosofiche di argomentarlo, e propone un suo particolare gioco metafisico che rinuncia a priori all’ipotesi di dimostrare o giustificare l’essere. Si tratta di questionarlo, di rinnegarlo, di mettere in dubbio tutte le evidenze che danno consistenza al reale e su cui si sostengono le nostre esistenze, in modo da tratteggiare una destabilizzante topografia del «nulla» dagli accenti talvolta gnostici e talvolta buddhisti, ma sempre scettici nei confronti di qualsivoglia soluzione (5). Scrive infatti Cioran: «Dovremmo destituire l’essere di tutti i suoi attributi, fare in modo che non sia più l’appoggio, il luogo di tutti i nostri legami, l’eterna impasse rassicurante, un pregiudizio, il più radicato di tutti, quello a cui siamo più accostumati. Noi siamo complici dell’essere, o di ciò che sembra tale, perché non c’è alcun essere, ci sono solo surrogati d’essere. Ce ne fosse uno di vero, bisognerebbe comunque liberarsene ed estirparlo, visto che tutto ciò che è si tramuta in ostacolo e in catena» (6). Liberarsi dall’essere, o vedere nel non-essere l’unica forma di libertà possibile, significa circoscrivere le speranza di «fuga» nella direzione indicata da un «vicolo cieco», secondo una traiettoria che farebbe delle riflessioni cioraniane una sorta di «labirinto» senza uscita alcuna (7). In un senso meno immediato, però, l’ostinazione con cui Cioran aggroviglia il proprio pensiero intorno all’idea di impasse nasconde e rivela qualcosa di liberatorio: se ogni strada percorribile conduce a un’aporia, non c’è alcuna retta via da smarrire e ci si può dunque assumere il coraggio e la sfacciataggine di “sbagliare” direzione, nella totale non curanza dei punti cardinali. Resta, certo, il timore di trovarsi nel luogo sbagliato e la consapevolezza che il labirinto non sia solo una trappola, ma il limite stesso della nostra esistenza e della nostra ragione. Nei Syllogismes de l’amertume, il pensatore romeno confessa che «coltivano l’aforisma soltanto coloro che hanno conosciuto la paura in mezzo alle parole, quella paura di crollare con tutte le parole» (8), quasi a volerci indicare un’ossessione ricorrente in tutte le sue opere: la salvezza non passa per il linguaggio, ed ogni parola non è che una pietra che aggiungiamo alle pareti del labirinto, questa torre di Babele contorta e orizzontale, refrattaria all’assoluto e ad ogni trascendenza (9). Cioran parla spesso di trascendenza, ripetutamente la rinnega e perennemente la rimpiange. La scrittura, in questo frangente, diventa il luogo di tale rifiuto e il segno di questa fallimentare nostalgia: consacrarsi al verbo significa sottomettersi alla claustrofobia della pagina bianca, all’interno della quale si possono delineare soltanto simulacri negativi. La presunzione delle grandi costruzioni filosofiche consiste proprio nel pretendere che i simulacri siano ciò che si trova al di là della pagina bianca, la quale dovrebbe qualificarsi, ex hypothesi, come sorgente di ciò che veramente è. Ripetendo però il vuoto frastuono del Qohélet, Cioran constata a suo modo che «fumo è tutto /soffio che ha fame» e che il nostro desiderio di conoscenza, tutta la sete di sapere consustanziale alla nostro respiro non è altro che un «crescere in tormento», un accumularsi vano di libri e di dolore (10). Rispetto a quanto detto, il grido di Giobbe e la disperazione di Macbeth non sono soltanto “modelli di stile” con cui il filosofo è costretto a confrontarsi, ma rappresentano anche una tensione a cui dovrebbe tendere ogni parola che voglia essere “vera”: quella di far conflagrare il linguaggio, per mostrarne l’estrema e fragile inconsistenza. Lo stesso Cioran, parlando del suo profondo legame con la poesia, ammette che l’impeto lirico del suo primo testo in francese rispecchiava «un’irrefrenabile voluttà di negare» e di maledire il mondo, che, nel corso degli anni, era destinata a diminuire per lasciare spazio alla «brevità», al «laconismo», alla «concisione» e alla «freddezza voluta»: qualità stilistiche che non indicano il passaggio ad una visione non poetica o meno tragica dell’essere, ma che segnano un cambio di «tono» e di attitudine (11). Alla volontà romantica ed esasperata di distruggere Dio, il cielo e la terra e di esplodere con loro, si sovrappone gradualmente la consapevolezza che questa impresa è tanto eroica quanto ridicola, perché rivela la presunzione di qualcuno che, volendo rivaleggiare con la tracotanza del Diavolo, non ha saputo far altro che improvvisare qualche anatema insolente e alcune battute suicide (12). L’ambizione poetica di mandare in frantumi l’Assoluto si rivela altrettanto fallimentare di quella strettamente filosofica che lo voleva dimostrare, dato che entrambe, dopo aver preteso di innalzare la parola al livello della verità, si limitano a rifilare «misteri fetidi e affettazioni» (13). E non si tratta di un’impossibilità relativa esclusivamente alla parola, riguarda anche colui che parla, incapace sia di realizzare ciò che ha detto, che di esprimere esattamente ciò che avrebbe desiderato dire. Cioran si situa nel mezzo di questa doppia impossibilità ‒ che concerne la parola in quanto scrittura e lui in quanto scrittore ‒ e, nello sforzo di descriverla, ci offre un ritratto di sé grottesco ed esilarante, che è, nel contempo, un compendio del grottesco di ogni aspirazione filosofica (14). Nei Syllogismes, per esempio, leggiamo: «‘Sta male ‒ mi dite ‒ prendersela continuamente con l’ordine delle cose’. Ma è colpa mia se non sono altro che un parvenu della nevrosi, un Giobbe alla ricerca di una lebbra, un Buddha di paccottiglia, uno scita flemmatico e depravato?» (15). Altrove, egli rincara la dose e si definisce uno scroccone dell’abisso, uno stilita senza colonna, un fanatico dell’improbabile, un delirante preoccupato di imparzialità, uno scrittore per menopause metafisiche, un pantofolaio delle vertigini… Tutta questa serie di ossimori, a cui si potrebbero aggiungere diverse altre citazioni, rendono conto di quell’impasse che, come già osservato, è tanto biografica quanto metafisica. Un vicolo cieco e un senso di naufragio che Cioran spiega anche alla luce di uno dei suoi grandi rimpianti: quello di aver trascurato l’esercizio musicale. In Aveux et anathèmes, la sua ultima raccolta di aforismi in francese, egli scrive che «tutto ciò che mi logora, l’avrei potuto tradurre se l’obbrobrio di non essere musicista mi fosse stato risparmiato» (16). Cioran, in effetti, si era seriamente dedicato allo studio del violino durante la sua adolescenza, abbandonandolo poi d’improvviso, sia per ribellione contro le tradizioni familiari, sia per un’intuizione precisa: aveva il presentimento che la sua «sensibilità da scorticato» non potesse sopportare un rapporto troppo diretto con l’unica forma d’arte in grado di esprimere, come aveva sostenuto Schopenhauer, l’essenza di un fenomeno e l’infinito dell’essere (17). Avrebbe continuato ad ascoltare musica, e con rara finezza, per tutta la vita, ma non avrebbe più praticato alcun strumento. In compenso, avrebbe rimediato a questo vuoto attraverso due terapie complementari: la lettura e la scrittura. Leggere più di chiunque altro, e dare una forma ai propri tormenti grazie a un nuovo strumento: la penna. Da un punto di vista strettamente biografico, dunque, il giovane Cioran comincia a scrivere quando smette di suonare, nel momento in cui ha bisogno di un’altra via per poter sfogare le sue enormi riserve di sofferenza, fisica e metafisica. Ma da una prospettiva più filosofica, la scelta di impegnarsi nella scrittura diventa il segno drammatico di una rinuncia che verrà sempre percepita come una sconfitta e come una caduta, perché soltanto la musica, agli occhi di Cioran, sarebbe stata in grado di fare ciò che le parole mai potrebbero: riscattare le menzogne dell’esistenza e la nostalgia dell’assoluto ‒ e del paradiso, e dell’eternità. Scrivere significa rinchiudersi nel rimpianto di non poter trovare l’espressione adeguata all’infinito, equivale alla condanna di ripetere parole già sconfessate, di cui si è dubitato e con cui ci si è ingannati. E se Cioran ammette che la verità si possa intuire, nega però che sia concettualmente rappresentabile, escludendola di fatto dalle competenze della filosofia, la quale, inevitabilmente, si riduce a un esercizio di scetticismo, o di «defascinazione». Non casualmente, nei suoi aforismi, il pensatore romeno metta spesso in evidenza il contrasto tra musica e parola, arrivando a dire che «senza l’imperialismo del concetto, la musica avrebbe sostituito la filosofia. Sarebbe stato il paradiso dell’evidenza inesprimibile, un’epidemia d’estasi» (18). «Confutazione di tutti i [suoi] anatemi», la musica ‒ che non è mai «scettica» ‒ ricorda a Cioran che non «tutto è menzogna»19, e che esiste un modo non illusorio di stare nel tempo. Illusione su scala esistenziale, non stupisce che Cioran definisca la vita ‒ e la storia‒ una «caduta nel tempo». L’utilizzo dell’immagine biblica, prima ancora di insinuare un orizzonte peccaminoso, indica una condizione di squilibrio specifica dell’esistenza umana: a differenza di Agostino, per il quale Dio avrebbe creato il tempo insieme al mondo, Cioran sostiene che, per fare il mondo e «concepire un’opera che lo avrebbe consumato, diminuito», Dio si fosse dovuto precipitare nel tempo20. La creazione, in altri termini, si configura come un «capitombolo» ontologico che segna il passaggio dalla perfezione eterna all’imperfezione temporale, quasi che il tempo fosse l’opera perversa di una volontà demiurgica altrettanto depravata21. Fatto a immagine e somiglianza della depravazione divina, l’uomo è l’ultimo l’effetto di questa degradazione, che dal nulla immutabile lo ha condotto al divenire e, da buon parassita, si è stabilizzato nel tempo «alla maniera di un verme in un frutto» marcio22. Lungi dal percepire nel tempo la sua dimensione naturale, l’uomo è un essere innaturale in quanto è cosciente della propria temporalità e, a differenza degli altri animali, che semplicemente esistono, l’uomo sa di esistere e di dover morire, e tale consapevolezza fa sì che egli, in realtà, non sia mai «allo stesso livello» della sua esistenza, ma si percepisca sempre come «colui che non è» o che non è esattamente ciò che dovrebbe essere: «Esempio di antinatura, il suo isolamento è eguagliato solo dalla sua precarietà. L’inorganico basta a se stesso; l’organico è dipendente, minacciato, instabile; il cosciente, è quintessenza di caducità»23. L’uomo, fatalmente cosciente, è quintessenza d’irrealtà, e nella virtualità del tempo esperisce tanto la sua «deficienza d’essere», quanto la sua attitudine a non essere più. Per lui tempo significa morte, perché la morte è l’orizzonte ultimo degli istanti a sua disposizione. Ma, proprio come la morte è un’esperienza comune a tutti e di cui nessuno può dare testimonianza diretta, così il tempo è il luogo di passaggio che tutti attraversano e in cui ognuno è soltanto un apolide ‒ un escluso, un intruso, un marginale. Il tempo non appartiene all’uomo, nonostante egli appartenga a questo fluire che lo dissolve: una strana dissonanza, da cui deriva il sospetto di trovarsi «senza appoggio, in piena irrealtà o in pieno inferno. O in tutte e due in una sola volta, nella noia, questa nostalgia incompiuta del tempo, questa impossibilità di raggiungerlo e di integrarci al suo interno, questa frustrazione di vederlo scorrere là in alto, al di sopra delle nostre miserie»24. Da un punto di vista antropologico, l’uomo si delinea agli occhi di Cioran come l’unico animale incapace di accordarsi con «il suo elemento vitale», con quel tempo che lo proietta nel futuro e lo esclude dal presente e che lo rende simile a «un’ombra alle prese con dei simulacri, [a] un sonnambulo che si vede marciare» senza poter comprendere la ragione dei suoi passi. Tentare di comprenderla, al modo della filosofia, facendo del tempo l’ossessione delle proprie riflessioni e lo scopo delle proprie astrazioni, comporta l’aggravarsi del disaccordo tra il sé e la dimensione temporale, perché, a forza di contemplare il passaggio degli istanti, si finisce per deformare il tempo e farne «una successione senza contenuto, [...] una varietà del nostro vuoto»25. Al riguardo, la composizione musicale rappresenta un modo, forse l’unico, di «trasfigurare» questo «desiderio di evasione dal tempo» in una possibilità di fuga verso noi stessi e verso quella trascendenza così costantemente rimpianta: «non c’è vera musica che non ci faccia palpare il tempo», leggiamo in un’aforisma26. E Cioran, che vede nell’elemento temporale la causa stessa della frattura tra soggettività e assoluto, crede che la musica possa parzialmente rimediare a questa incrinatura e ricondurre chi la ascolta alle soglie paradiso perduto, prossimi all’albero della vita. Sentire l’eternità, anche per un solo istante, per riscattare l’inascoltabile opera del creatore: «Fuori della materia, tutto è musica: Dio stesso non è altro che un’allucinazione sonora»; «L’infinito attuale, non senso per la filosofia, è l’essenza stessa della musica»; «Senza Bach, la teologia sarebbe priva di oggetto, la Creazione fittizia, il nulla perentorio. Se c’è qualcuno che deve tutto a Bach, questi è proprio Dio»27. Di fronte al “muro” dell’assoluto, Cioran si trova spesso a riflettere sulla settima delle arti liberali, e questo per una ragione che tocca in profondità il pensiero filosofico: le infatuazioni metafisiche per un altro mondo, che cercano invano «un’idea» per farci tollerare questo mondo, sono in un qualche modo ammissibili alla luce di quella sola espressione umana che ha saputo “giustificare” sia Dio che l’eternità. Nel Livre des leurres, Cioran parla della necessità di coltivare un «sentimento musicale dell’esistenza» che sappia «rompere le barriere dell’individualità» e superare le riduttive visioni concettuali dell’essere, per rispondere a quell’esigenza mistica di unione tra il singolo e il tutto, tra il sé soggettivo e l’universo anonimo28. E non casualmente, tra i modelli di riferimento per questa sua ricerca mistica e intellettuale, non spiccano i nomi di illustri pensatori, ma l’effigie di un grande musicista: Johann Sebastian Bach. Bach non ha scritto nessuna opera filosofica, ma ai suoi capolavori musicali Cioran riconosce il merito di aver conferito «un contorno sonoro alla concezione cristiana del disaccordo assoluto tra tempo ed eternità» e di aver reso possibile un «processo di ascensione verso l’eternità [...] e l’entrata, non in un altro ordine di esistenza, ma in un mondo sostanzialmente differente»: un mondo in cui «la sofferenza dell’uomo caduto nel tempo» diventa la chiave di volta per farci «innalzare dolorosamente verso le altezze» angeliche29. Una sorta di mito, in cui Bach rappresenterebbe «l’esilio terrestre degli angeli» e il tentativo di ripercorrere à rebours questa spirale celeste orientata all’istante che precede la storia30. A differenza della filosofia, che per dare un senso alla storia si è immaginata un’escatologia redentrice, Cioran tenta di seguire Bach in questo cammino che anticipa le incongruenze del divenire e ne sospende la decadenza: «Offerta musicale, Arte della fuga, Variazioni Goldberg: amo in musica, come in filosofia e in tutto il resto, ciò che fa male per l’insistenza, per la ricorrenza, per questo interminabile ritorno che tocca le profondità ultime dell’essere e vi provoca un piacere difficilmente sostenibile»31. Nella Biblioteca di Babele, Borges aveva confessato che «parlare è incorrere in tautologie» e che nulla si potesse dire che non fosse già stato detto in uno degli ipotetici volumi dei numerosi scaffali degli innumerevoli esagoni del suo cosmo cartaceo e orizzontale; Cioran, da buon «bibliotecario», asseconda questa speranza e teme che ogni parola detta sul tempo non faccia che riverberare l’apatia di un universo prolisso e ridondante32. Tuttavia, non si tratta di non dire più nulla, ma di dire il già detto come se lo si potesse ripetere in modo diverso, al modo di una variazione musicale, che faccia della reiterazione di un medesimo tema un modo per «fuggire» dal tempo ‒ dal male, dalla storia. In Aveux et anathèmes, si legge che «è proprio del dolore non aver vergogna di ripetersi» e che, ciò nonostante, «l’ideale sarebbe ripetersi come Bach»33. A questo punto, si potrebbero accostare con troppa facilità i due aforismi e concludere che, per svincolarsi dal dolore del tempo, Cioran abbia tentato di riscrivere una “variazione filosofica” sulle dissonanze della storia; se non fosse per il particolare che è filosoficamente impossibile ripetersi come Bach e che, anche qualora lo fosse, il divenire resterebbe «un’agonia senza epilogo», una variazione del peggio destinata a soccombere «al cospetto dell’autorità del dettaglio meschino»34. Dal tempo non ci si libera mai, tant’è che ammette Cioran: «Forse ho troppo puntato sulla musica, forse non ho preso tutte le preoccupazioni dovute contro le acrobazie del sublime, contro la ciarlataneria dell’ineffabile...»35 Resta da chiedersi, allora, per quale ragione si dovrebbe scrivere, quand’anche il miraggio di una parola musicale non potrebbe recare con sé le grazie di un’espiazione. Come accennato sopra, la stessa idea di liberazione si tramuterebbe in un’ulteriore «catena» se fosse rivendicata necessaria, senza contare che Cioran scrive sempre per reagire a un dolore presente o passato e con l’intenzione di provocare una ferita ventura a chi poi lo leggerà, per «svegliarlo, fustigarlo», perché «un libro deve capovolgere tutto, e tutto rimettere in questione» ‒ senza preoccuparsi di quanto accadrà e della responsabilità di ciò che si è scritto36 . La scrittura, insomma, serve per sopravvivere, ma quasi mai per salvare: «Nessuna salvezza, tranne che nell’imitazione del silenzio. Ma la nostra loquacità è prenatale. Razza di frasai, di spermatozoi verbosi, siamo chimicamente legati alla Parola»37. Si parla, dunque, e di solito nella direzione contraria a quella che dovremmo seguire. Ma Cioran, «emarginato» dal tempo e volutamente serrato nei propri rimpianti, non parla dal punto di vista di coloro che hanno cambiato la storia, ma da quello di coloro che sono stati abbandonati ai «marciapiedi» del divenire: gli ultimi, i diseredati, i clochards, le prostitute, gli inconcludenti... Un corteo di figure marginali, che evocano il ritmo di una melodia nostalgica: «quando non si ha più voglia di manifestarsi, ci si rifugia nella musica, questa provvidenza degli abulici» — di coloro che «comunemente si chiamano ‘falliti’ [...ma che ci] hanno rivelato le idiozie inerenti al culto della Verità» e all’«ossessione del rendimento»38. In Histoire et utopie Cioran riflette sul fatto che, alla base dello slancio utopico, si nasconde la medesima e insensata illusione che è causa del movimento storico reale: l’assurda volontà umana di fabbricare da sé il proprio destino o, «per ricorrere alla terminologia biblica, di rifare l’Eden con i mezzi della Caduta»39. Da questa prospettiva, l’abulico-fallito non si qualifica semplicemente come un perdente, ma si innalza al rango di un «eletto che si rifiuta di faticare», perché ‒ unico tra i suoi simili ‒ non si è accomodato all’inerzia di un tempo non consacrato alle convulsioni del divenire40. Al cospetto di una storia che avrebbe dovuto perfezionare il futuro e che, invece, ha generato soltanto «il più atroce dei mondi possibili», Cioran prende in contropiede il sentimento della speranza e, dopo aver visto nel «possibile stesso del passato a venire», rivolge il proprio sguardo alle virtù del fallimento — e alla sterile lezione di saggezza che ne deriva: la disillusione. Se ogni evento si caratterizza come un «tumore del tempo», si deve fare tutto ciò che è in nostro potere per non contribuire al loro proliferare: non fare nulla, o dedicarsi al rimpianto di ciò che mai si farà.41 Come Bach aveva espresso il «ricordo di un mondo divino», così bisogna apprendere a rimpiangere il futuro umano. Ma a differenza del compositore tedesco, che aveva trasfigurato la propria nostalgia grazie alla sacralità delle note, Cioran modella la sua malinconia imitando «il pirronismo da marciapiede sfoggiato dalla meno dogmatica delle creature: la prostituta». Purtroppo non è necessario essere un buon musicista per essere una buona peripatetica, ma sia la musica che la prostituzione comportano una capacità di distacco dal mondo e dagli uomini che spesso la saggezza filosofica non sa raggiungere. Ed è verso questo distacco promiscuo e moderato che Cioran muove le proprie incertezze e perplessità: «Essere senza convinzioni nei confronti degli uomini e di se stessi, questo è il nobile insegnamento della prostituzione, accademia ambulante di lucidità, ai margini della società come la filosofia. ‘Tutto ciò che so, l’ho appreso alla scuola delle lucciole’, dovrebbe gridare il pensatore che tutto accetta e tutto rifiuta, quando, seguendo il loro esempio, si è specializzato nel sorriso stanco; quando gli uomini sono per lui soltanto clienti, e i marciapiedi del mondo il mercato in cui vende la sua amarezza – come le sue compagne, i loro corpi»42. E proprio come «una baldracca inefficace», Cioran ha preteso per tutta la vita di non aver combinato nulla, nonostante i suoi libri siano l’inconfutabile prova del contrario. Una contraddizione che ha forse «qualche rapporto con il peccato originale» e che ha indubbiamente a che fare con l’incapacità umana di affrontare il vuoto e l’informe: «Il silenzio è insostenibile: e quanta forza per potersi stabilire nella concisione dell’Indicibile! È più facile rinunciare al pane che al verbo. Sfortunatamente il verbo tende allo sproloquio, alla letteratura [...] all’inflazione»43. Scrittore suo malgrado, Cioran sogna di non deprezzare ulteriormente le parole e di comporre un libro che, «carnevale e apocalisse delle Lettere, [fosse] un ultimatum alla pestilenza del Verbo»44. Il paradiso costantemente rimpianto da Cioran sembra insinuarsi tra la settimana saturnina delle maschere e il rituale demiurgico del Giudizio Finale, tra un giorno festivo e l’Ultimo Giorno45. Una celebrazione allusiva della fine dei tempi che spera paradossalmente che il tempo non stia per finire, non fosse altro che, a sbarazzarsi in questo modo dell’esistenza, «ci si priverebbe della gioia di prenderla in giro». Una felicità che tradisce una certa malinconia e che spiega anche tutta la perplessità nei confronti di quelle utopie che credono veramente in una fine idilliaca dell’uomo. Finirà male; nella migliore delle ipotesi, finirà peggio. Finché si potra contare sull’Inesorabile, la consolazione di uno scacco magistrale non ci è tuttavia preclusa. «Ognuno si aggrappa come può alla sua cattiva stella», scrive da qualche parte Cioran, lasciandoci immaginare che non a tutti sia concesso il privilegio di un inferno esemplare; ad ogni modo, le escatologie sono ingannevoli come il domani e, nel quotidiano, sarebbe opportuno non confidare troppo negli astri, ma accontentarsi di cambiare le nostre disperazioni «come ci si cambia di camicia»46. Un semplice rituale igienico, che denota l’idiota preoccupazione di non voler morire con un abito sporco: «stamattina, dopo aver ascoltato un astronomo che parlava di miliardi di soli, ho rinunciato a farmi la doccia. A che pro lavarsi ancora?»47 Una domanda legittima, la cui risposta, al pari della scrittura di un libro, prevede la capacità di ignorare le stelle. Proprio come farebbe una sgualdrina attempata, che si improfuma per prepararsi al lavoro. O per andare a un concerto.





1 E. Cioran, Tentation d’exister , OEuvres , é d. Plé iade, Paris 2011, p. 366. Tutte le opere francesi di Cioran saranno citate da questa edizione, traduzioni nostre. 2 Ibidem. 3 Aveux et anathèmes , OEuvres , cit., p. 1067. 4 Précis de décomposition , OEuvres , cit., p. 47. 5 Vedi J. Laurent, Cioran, Plotin et la gnose , in L. TacouV. Piednoir, L’Herne. Cioran , Paris, 2009, pp. 264270; F, Chenet, Cioran et le bouddhisme , in L’Herne. Cioran , cit., pp. 271285. 6 Le Mauvais démiurge , OEuvres , cit., p. 677. 7 Sulla metafora del labirinto vedi J. M. Marin Torres, Cioran, o el labirinto del la fatalidad , Valencia 2001; A. Demars, Le pessimisme jubilatoire de Cioran , thè se de doctorat, Université de Lyon 3, Lyon 2007, pp. 215227. 8 Syllogismes de l’amertume , OEuvres , cit., p. 172. 9 Vedi E. W. Said, Amateur d’insoluble , in L’Herne. Cioran , cit., pp. 173176. 10 ¶\Tutte le vidi / Le azioni che si fanno sotto il sole / Ed ecco / fumo è tutto / soffio che ha fame [...] Sapienza che si accresce / È crescere in tormento / Gravarsi di conoscere fa traboccare il dolore¶] (Qohélet I, 14,18; tr. it. Guido Ceronetti, Milano 2013). 11 Exercises d’admiration , OEuvres , cit., p. 12461247. Sul rapporto tra poesia e ¶\sapere notturno¶] nel pensiero cioraniano vedi: N. Cavaillè s, Cioran malgré lui. Écrire à l’encontre de soi , Paris 2011. 12 Ibidem . 13 La tentation d’exister , OEuvres , cit., p. 339. 14 Su questo punto cfr. P. Sloterdijk, Cioran ou l’excès de la parole sincère , in L’Herne. Cioran , cit., pp. 232237, dove l’autore osserva che, attraverso l’immagine paradossale di sé offerta da Cioran nei suoi testi, egli ci fa scoprire ¶\il modo più sano di essere incurabili¶]. 15 Syllogismes... , cit., p. 223. 16 Aveux et anathèmes , cit., p. 1067. 17 S. Jaudeau, Cioran et la musique , in L’Herne. Cioran , cit., pp. 396398; dello stesso autore vedi anche Cioran ou le dernier homme , Paris 1990, pp. 178193. 18 Syllogismes... , cit., p. 240. 19 Aveux et anathèmes , cit., pp. 1041, 1044. 20 La Chute dans le temps , OEuvres , cit., p. 534. 21 Vedi Le mauvais démiurge , cit., pp. 621631. 22 La Chute... , cit., p. 525. 23 Ivi, p. 528. 24 Ivi, pp. 616617. 25 Ivi, pp. 529, 613. 26 Livre des Leurres, OEuvres, «Quarto», Paris 1995, p. 175; Syllogismes…, cit., p. 241. 27 Syllogismes…, cit., pp. 225, 240, 241. 28 Livre des Leurres, cit., p. 113. 29 Ivi, p. 176. 30 Ibidem. Sul rapporto tra mitologia e musica, vedi lo studio classico di C. LéviStrauss, Il crudo e il cotto, tr. it., Milano 1995. 31 Écartèlement, OEuvres, cit., p. 955. 32 J.L. Borges, Finzioni, tr. it., Milano 2006; vedi anche la lettera che Cioran dedica a Borges, in Exercises d’admiration, OEuvres, cit., pp. 12241226. 33 Aveux et anathèmes, cit., pp. 1106, 1031. 34 Syllogismes…, cit., p. 200; Écartèlement, cit., p. 990. 35 Syllogismes…, cit., p. 242. 36 Intervista con Fernando Savater, in Entretiens, Paris 1995, p. 21. 37 Syllogismes…, p. 176. 38 Aveux…, cit., p. 1118; La tentation…, cit. p. 338; Histoire et utopie, cit., p. 498 corsivo nostro. 39 Ivi, p. 509. 40 Su questo tema vedi: M. Carloni, Cioran e la poesia del fallimento, in «Antarès», 7, 2014, pp. 1418. 41 Syllogismes…, cit., p. 243. 42 Précis…, cit., p. 77. 43 Syllogismes…, cit., p. 218; La tentation…, cit., p. 332. 44 Ivi, p. 333. 45 Sul rapporto tra carnevale e apocalisse vedi C. Ginzburg, Nessuna isola è un'isola. Quattro sguardi sulla letteratura inglese, Milano 2002, pp. 1744. 46 Aveux…, cit., p. 1116; Syllogismes…, cit., p. 253. 47 Aveux…, cit., p. 1027.


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