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Dentro un rito. A proposito del Sacre di Stravinsky


Presentare una lezione-concerto attorno a Le Sacre du printemps di Igor Stravinskij è, se vogliamo, compito difficile e facile allo stesso tempo; difficile perché ormai del Sacre si è scritto e si è detto in maniera esaustiva. Abbiamo testimonianze, studi, incisioni. Le domande che mi pongo sono: cosa posso dire di nuovo? O meglio, come sintetizzare, prima di un concerto, la portata enorme di questa partitura? E d’altro canto è un compito facile perché si sa che il Sacre di Stravinskij è da considerarsi una sorta di icona musicale del XX secolo. In un tempo fatto di icone e simboli mediatici mi pare che potrebbe essere questo un buon punto di partenza. Questa sconvolgente opera musicale, insieme al suo autore, assorbono come emblemi le temperie della storia della musica del secolo appena trascorso. Si ricorda il grande scandalo della prima esecuzione parigina del 1914; ebbene lo scandalo in qualche modo resuscita ad ogni nuovo ascolto, sebbene mediato dal tempo e da consuetudini d’ascolto molto mutate.

La “violenza” del Sacre è disegnata da Stravinskij con una precisione numerica, un po’ come opera Picasso in Guernica. Sotto la superficie primordialmente rivoluzionaria si nascondono calcoli precisi, strategie e simmetrie compositive che consegnano l’opera al termine di “dispositivo”; un termine che ben caratterizza - credo - tutta la musica di Stravinskij. Abbiamo a che fare con un meccanismo perfetto, in cui ogni sorpresa (ed il Sacre è pieno di sorprese) sembra sempre al posto giusto. Insomma Stravinskij era consapevole di quello che faceva, e ritengo anche delle reazioni che avrebbe prodotto.

Significativo è anche il modo con cui Stravinskij parlò della genesi del Sacre, molti anni dopo, nelle sue Conversazioni con Robert Craft. Lo humor di Stravinskij, la sua schiettezza, credo rivelino molto dell’atteggiamento compositivo:


Nel luglio 1911, dopo le prime rappresentazioni di Petruška, partii alla volta della tenuta di campagna della principessa Teniševa, vicino a Smolensk, per incontrare Nikolaj Roerich e progettare la sceneggiatura della Sagra della primavera. Roerich conosceva bene la principessa, e ci teneva che vedessi le sue collezioni di arte popolare russa. Da Ustilug raggiunsi Brest-Litovsk, e scoprii che avrei dovuto aspettare due giorni il prossimo treno per Smolensk. Corruppi perciò il macchinista di un treno merci perché mi lasciasse viaggiare in un carro bestiame, dove mi trovai solo a tu per tu con un toro.

L’animale era imbrigliato da un’unica fune non molto rassicurante, e poiché mi guardava con cipiglio e sbavava mi barricai dietro la mia solitaria valigetta. Quando a Smolensk uscii da questa corrida, spazzolandomi vestito e cappello, con la mia valigia lussuosa o almeno non da vagabondo, dovevo fare un buffo effetto, ma certo sarò apparso sollevato. La principessa Teniševa mi ospitò in una foresteria accudita da domestici in belle uniformi bianche con fascia rossa e stivali neri. Mi misi al lavoro con Roerich, e in pochi giorni il piano d’azione e i titoli delle danze furono pronti. Mentre eravamo là, Roerich abbozzò anche i suoi famosi fondali di tipo polovesiano, e disegnò i costumi basandosi su costumi veri della collezione della principessa. A questo punto il nostro titolo per il balletto era Vesna Svjaschennaja (“Primavera sacra“ o “Primavera santa”). Il titolo Le sacre du printemps [“La sagra della primavera”] è di Bakst. In inglese, The Coronation of Spring si avvicina più di The Rite of Spring al mio significato originario.


Vale la pena leggere come Stravinskij ricorda ancora Nicolaj Roerich:


Roerich aveva disegnato un fondale di steppe e cielo, la terra incognita, l’hic sunt leones dell’immaginazione degli antichi cartografi. Lo schieramento di dodici bionde ballerine dalle spalle quadrate contro questo paesaggio formava un insieme notevole. E i costumi di Roerich, a quanto si diceva, erano storicamente esatti, oltre che felici scenicamente. Roerich venne a Parigi per la prima, ma riscosse assai poca attenzione, e presto scomparve, sdegnato, immagino, tornando in Russia. Non l’ho più rivisto; ma durante l’ultima guerra non mi meravigliò sapere delle sue attività segrete e

dei suoi curiosi rapporti col vicepresidente americano Wallace nel Tibet. Aveva l’aria di uno che avrebbe dovuto fare il mistico o la spia. [...]


Alberto Savinio, fratello di Giorgio de Chirico, nelle sue cronache musicali, coglie nel segno quando afferma dopo la prima italiana del Sacre, nel 1941, «Stravinsky non è una mente primordiale. É un musico educato e spiritoso, che con le sue grosse e nodose mani da giocoliere giapponese, sa costruire dei meccanismi sonori molto curiosi e attraenti». Curiosamente, Savinio aveva anche assistito alla prima parigina! Ma lo scandalo originario non era stato avvertito solo dal pubblico parigino della prima. Nel 1910, Erik Satie scatta una fotografia che ritrae Claude Debussy e Igor Stravinskij. Debussy guarda alla nostra sinistra. Non ne penetriamo lo sguardo, ci sfugge. Nascosto, schivo, Debussy «parlava a voce bassa e calma, e le sue frasi finivano in un mormorio quasi impercettibile». Stravinskij, invece, ci coglie frontalmente. Anche le sue varie raccolte di memorie vogliono essere precise, puntuali, nette:


Verso la fine della sua vita Satie si era volto alla religione e aveva cominciato a comunicarsi. Una mattina lo incontrai dopo una funzione religiosa, e con quel suo tono tranquillo mi disse: «Alors, j’ai un peu communiquè ce matin». Si ammalò d’improvviso, e morì poco dopo, quietamente.


Era uno dei primi incontri tra il compositore francese e quello russo. Un paio d’anni dopo, nel 1912, Debussy e Stravinskij s’incontrano di nuovo, ancora a Parigi. Di quell’incontro ci dà un dettagliato resoconto Louis Laloy, orientalista, musicologo e biografo di Debussy:


Nella primavera del 1912, grazie ad un chiaro pomeriggio, io facevo due passi nel mio giardino di Bellevue con Debussy. Stavamo aspettando Stravinskij. Come ci vide, il musicista russo corse, con le braccia in avanti, ad abbracciare il maestro francese che, sopra la sua spalla, mi gettò uno sguardo divertito e al tempo stesso commosso. Egli aveva portato con sé la riduzione per pianoforte a quattro mani del suo nuovo lavoro, Le Sacre du Printemps. Debussy acconsentì a suonare il basso sul pianoforte Pleyel che ancora oggi possiedo. Stravinskij aveva domandato il permesso di togliersi il colletto. Con lo sguardo, immobilizzato dagli occhiali, che dal naso puntava verso il pianoforte, a momenti accennando con la voce una parte, egli trascinava in un torrente sonoro le mani agili e molli del suo collega che seguiva senza intoppi e sembrava infischiarsene delle difficoltà. Quando ebbero terminato, non ci fu più ragione di abbracci e neppure di complimenti. Eravamo muti, messi a terra come dopo un uragano giunto, dalla profondità dei tempi, a strappare la nostra vita alle radici.


Quell’incontro non verrà ricordato nelle memorie stravinskijane. Debussy invece, scriverà una lettera all’amico russo, prima della fatidica rappresentazione parigina del Sacre:


Ho ancora in mente il ricordo dell’esecuzione del vostro Sacre du printemps in casa di Laloy. Mi ossessiona come un bell’incubo e inutilmente cerco di riprovare la terribile impressione. Per questo ne attendo la rappresentazione come un bambino goloso al quale sia stata promessa della marmellata.


Nel Sacre già l’inizio rappresenta uno scandalo: la scelta di affidare le prime note dell’opera, la rappresentazione dell’alba, e l’alba dunque del sacrificio, ad una melodia di fagotto, uno strumento al quale mai prima di allora si era affidato un incipit musicale. La coreografia di Pina Bausch, del 1975, coglie bene l’aspetto primordiale del Sacre, mettendo in scena una lenta spogliazione in cui l’erotismo rimanda alle sue radici più profonde.

Le esecuzioni del Sacre ovviamente non si contano. E non si contano gli studi, le analisi, le coreografie. Troviamo anche alcune citazioni cinematografiche (dall’episodio preistorico di Fantasia di Disney, alla scena della gazzarra parigina, nel mediocre film dedicato alla relazione tra Coco Chanel e Stravinskij). Per molti compositori importanti della seconda metà del XX secolo, il Sacre è un’opera dalla quale non si può prescindere. Lo studio del Sacre diviene una sorta di magistero compositivo del XX secolo, attraverso il quale penetrare nelle più fitte trame combinatorie del ritmo. Pierre Boulez racconta delle lezioni di composizione di Olivier Messiaen, quando il maestro-ornitologo «non si accontentava di metterci in contatto con l’opera d’altri e farci intendere ciò che poteva esservi di fondamentale per lo sviluppo moderno, ma ci faceva partecipare altresì all’evolversi del suo pensiero, alle sue scoperte, al suo tirocinio quotidiano. Ed è così che abbiamo intuito, nel momento in cui egli ne prendeva a sua volta coscienza, l’importanza di un rinnovamento ritmico, ispirato a quella fonte unica che è il Sacre du printemps. Così, anche per un compositore di oggi, il confronto con il Sacre appare il momento in cui ripercorrere un itinerario creativo dirompente, per formulare percorsi compositivi rinnovati. Così è per Luigi Manfrin, compositore italiano, di cui sarà eseguito To the end of surfaces.

To the end of surfaces è una composizione per due pianoforti ed elettronica scritta appositamente per il “Festival Eterotopie 2008” di Mantova. Il punto di partenza di questo brano è il richiamo a Le Sacre du Printemps di Igor Stravinskij, in particolare alla versione a quattro mani per due pianoforti realizzata dallo stesso compositore russo che sarà proposta all’interno della stessa serata della prima di To the end of surfaces, in modo da porre le due composizioni direttamente a confronto. Non si tratta, tuttavia, di un semplice accostamento di un classico del primo Novecento con un contemporaneo che s’ispira liberamente ad esso; ciò che si vuole mettere in scena è piuttosto un processo generativo che nasce da un’opera musicale preesistente - il Sacre - e che s’innesca su essa senza mai citarla direttamente, per poi procedere altrove seguendo dei percorsi sonori propri. Si può paragonare tale processo ad una sorta di viaggio immaginario avventuroso, che inizia da un luogo noto per trasferirsi successivamente in zone sempre meno conosciute o familiari; nel caso in questione i territori da esplorare riguardano il suono o il timbro dei due pianoforti e la derivazione da esso di un disegno formale variegato, a partire da alcuni oggetti sonori noti e riconoscibili, ricavabili, appunto, dal Sacre. Com’è noto, il soggetto del balletto di Stravinskij concerne la rappresentazione di un rito sacrificale pagano nella Russia antica all’inizio della primavera; ciò nonostante, rispetto a questa tematica, il piano compositivo di To the end of surfaces volge in un tutt’altro senso o direzione.

Innanzitutto, come già detto, non c’è l’impiego di citazioni o materiali provenienti esplicitamente dal Sacre, ma solo la derivazione di alcune Gestalten o «immagini sonore» adottate per generare morfogeneticamente il brano sia dal punto di vista degli oggetti musicali che dei processi compositivi. Il riferimento principale è la Danse de la Terre che chiude la prima parte, ovvero L’Adoration de la Terre, ma le immagini sonore scelte, premesse del lavoro compositivo, fanno riferimento solo in parte alle sonorità e ai gesti pianistici ben congegnati da Stravinskij per la sua riduzione dall’organico orchestrale, essendo esse state particolarmente pensate per originare altre sonorità complesse, in bilico tra la tastiera e la cordiera del pianoforte. Centrale è il lavoro sulla ripetizione, elemento importante dal punto di vista generativo per il Sacre. La periodicità impiegata inizialmente in To the end of surfaces, in effetti, ripresenta continuamente le immagini sonore principali, intese come corpi sonori da deformare e tendere in una ricorrenza insistente e pulsata di reminiscenza stravinskijana, ma ulteriormente frammentata fino a divenire in alcuni momenti caotica, con violenti sbalzi sconnessi di piani e d’intensità, secondo diversi livelli di compenetrazione e con oscillazioni e alternanze di blocchi accordali, organizzate in modo intermittente con gradi d’irregolarità crescente.

Essenziale, soprattutto, è l’aspetto temporale con cui è organizzato l’intero impianto dell’opera: estraendo determinate durate delle singole parti e dall’insieme del L’Adoration de la Terre, e derivando matematicamente una progressione graduale di valori in espansione comprendente queste durate, si procede nel corso del brano verso tempi sempre più ampi e distesi.

L’intento è oltrepassare il senso terrestre del Sacre, decostruendone progressivamente il rituale o, meglio, facendone un punto d’installazione verso flussi temporali insieme allentati e concentrati - tempi che suggeriscono unitamente universi stellari e quantistici -, ossia verso dimensioni del suono sempre più ampie ma cariche di velocità infinitesimali o virtuali, ulteriormente dilatabili.

Si può, pertanto, paragonare la forma di To the end of surface ad un’immaginaria lente d’ingrandimento che amplia a poco a poco gli oggetti sonori impiegati distendendoli sempre più nel tempo, simile ad una successione di “zoomate” man mano più ampie; dunque, un viaggio fino ai confini estremi delle superfici sonore tracciate da Stravinskij per il suo Sacre.

In questo senso la predominanza iniziale delle tastiere, contraddistinta dal gioco convulsivo dei blocchi ritmici-accordali sobbalzati sull’intero spazio delle frequenze a disposizione, lascia a poco a poco campo all’interazione con la sintesi elettronica dei suoni tramite risonanze, modulazioni, sgranamenti ed espansioni rielaborate del timbro; quest’ultime affiorano per gradi dalle superfici sonore schizzate dai pianoforti, necessitando così di tempi sempre più rallentati in modo da lasciare spazio alla percezione di un’ampia aura acustica in cui la materia sonora diviene capace - per dirla con Deleuze - di captare forze non sonore come la durata e l’intensità, assecondando il proposito di voler «rendere la Durata sonora».


(testo elaborato dalla lezione concerto tenuta presso la rassegna Terre di Frontiera, Cividale del Friuli, 2008)

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